Ma che tristezza!

Aprile è il più crudele dei mesi, genera

Lillà da terra morta, confondendo

Memoria e desiderio, risvegliando

Le radici sopite con la pioggia della primavera

La Terra desolata – T. S. Eliot

tristezza psicologo ferrara

La tristezza, una delle emozioni che si teme di più e che si pensa si debba evitare il più possibile.
Nulla di meno vero. La tristezza è “fisiologica”, è comunemente vissuta e ha un forte impatto sul corpo e sulla mente. Può durare qualche secondo o diverse ore e si conclude spontaneamente, cioè senza che sia necessario un intervento farmacologico.
In genere quando vediamo una persona triste o infelice, il primo pensiero che ci viene in mente è che sia depressa. In realtà è importante distinguere la semplice condizione di tristezza da una malattia depressiva.
La tristezza può colpire tutti in determinati momenti della vita in seguito ad eventi spiacevoli di entità più o meno grande. La malattia depressiva, invece, è altra cosa e si configura con precise caratteristiche cliniche e può presentarsi sotto forma di diverse sindromi.

La tristezza può esserne sintomo, ma non necessariamente. La depressione, così come la ruminazione depressiva può portare a stati d’animo più prolungati e caratterizzati da un insieme di sintomi che contraddistinguono una sindrome fatta di visioni negative sul sé, sul mondo e sul futuro e porta ad avere un forte impatto sul “normale” funzionamento di vita della persona (Nolen-Hoeksema et al., 2008; Beck, 2008).

Come le altre emozioni, anche la tristezza ha una funzione adattiva, che interviene soprattutto in situazioni in cui è necessario far fronte a diverse forme di perdite: di amici, figli, partner, ma non solo, anche perdita di proprie risorse e capacità, perdita di status o ruolo lavorativo o familiare (Nesse, 1990).
Come suggerito da Forgas in un lavoro del 2017, la tristezza, nella sua forma lieve, favorisce uno stile di risposta (ad un determinato evento) più accomodante e permette alla persona di rimanere vigile e ben focalizzata non solo sul proprio vissuto interno, ma anche su ciò che avviene all’esterno.
La tristezza è spesso descritta come un’emozione costruita, nel senso che è il risultato di un confronto e di una contestualizzazione tra quelli che sono gli schemi interni (cioè rappresentazioni di esperienze precedenti) e le informazioni provenienti dal corpo e dall’ambiente esterno (Barrett, 2017). La tristezza è quindi il prodotto dell’integrazione tra realtà interna (il sé) e realtà sociale/contesto. Ed è proprio grazie a questa forma adattiva, che la tristezza può portare a stati affettivi anche piacevoli: per esempio quando ascoltiamo musica “triste” o guardiamo un film dalle sfumature drammatiche; queste esperienze vengono descritte e vissute come esperienze piacevoli, gradevoli e commoventi (Sachs et al., 2015).

Come si caratterizza la tristezza?

Nell’uomo, la tristezza si caratterizza per:

– comportamenti specifici: ritiro sociale, rallentamento motorio, postura accasciata, oscillazione del braccio, movimenti del capo in su e in giù, pianto, atteggiamenti non competitivi (che richiedono una bassa performance), maggiore distraibilità;

– cambiamenti fisiologici: in caso sia presente pianto, si osservano aumento della frequenza cardiaca e della conduttanza cutanea, mentre in assenza di pianto la tristezza è associata ad una riduzione della frequenza cardiaca e della conduttanza cutanea ed aumento della frequenza respiratoria (Grosse et al., 1994);

– espressione facciale tipica: sguardo rivolto verso il basso, palpebre cadenti, angoli delle labbra abbassati, sopracciglia interne oblique e sollevate. Darwin descrive la tipica espressione facciale della tristezza come “i muscoli del dolore”. Queste espressioni si possono osservare negli scatti di Dorothea Lange, degli anni ’30 del secolo scorso, mentre fotografava la “Madre migrante”.

Solo gli umani provano tristezza?

Coerentemente con le origini neuroevolutive associate alla tristezza, proposte da Panksepp, oltre che negli esseri umani, questa emozione è stata descritta anche negli animali. Per esempio, nel 2019, Frans de Waal ha descritto come certi animali si addolorino, manifestando un’emozione ancora più complessa della tristezza e che comprendeva anche sorpresa, rabbia, paura e negazione. L’arvicola della prateria, invece, famosa per manifestare empatia e un forte legame affettivo nei confronti del partner, di fronte al pericolo diventa passiva e tende a non mostrare preoccupazioni se vivrà o se morirà. Un’altra osservazione riportata dall’autore riguarda un giovane scimpanzè selvaggio che è rimasto per più di un’ora, senza interruzioni, a osservare il corpo di un maschio morto.

Ancora, gli elefanti raccolgono le ossa di un membro morto della loro mandria, trattenendone i pezzi nelle loro proboscidi e passandole ad altri membri della mandria. Sempre in una descrizione dell’autore, anche il cane prova tristezza: esso giace infatti vicino alla sua padrona, migliore amica morta con “occhi tristemente struggenti e sopracciglia corrugate” (Mellor, 2017). E, forse, chiunque di noi possieda un cane, uscendo di casa al mattino per andare a lavorare, prima di chiudere la porta, li ha visti quegli occhi struggenti pieni di tristezza e con le sopracciglia corrugate!

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