Non chiamateli scemi di guerra!
Gli effetti della guerra sui militari e veterani
Qualche giorno fa, leggendo una rivista, in particolare leggendo articoli in tema di guerra, mi sono imbattuta nella definizione di “scemi di guerra” che ha catturato immediatamente la mia attenzione. Di cosa si tratta? Andando ad approfondire ho scoperto che durante e dopo la Prima Guerra Mondiale vennero ricoverati tantissimi soldati, reduci di guerra, che mostravano dei disturbi caratteristici: mutismo, volto amimico (senza espressione), cammino rigido ed automatico (come dei fantocci), rigidità muscolare e tremori. La gente dell’epoca li chiamava “scemi di guerra”.
Che orrendo marchio!
Ancor più se si pensa che sono dei sopravvissuti a qualcosa che la maggior parte di noi, oggi, può solo immaginare.
Al di là dell’aspetto popolare della questione, la psichiatria si è immediatamente interessata a questo quadro clinico. In particolare lo psichiatra Myers, osservando queste persone e le loro cartelle cliniche, coniò per la prima volta il termine Shell Shock.
In un articolo pubblicato sulla famosa rivista Lancet descrisse proprio questo “shock da bombardamento”, ipotizzando che i sintomi presentati fossero il risultato di lesioni cerebrali causate dai proiettili e dai bombardamenti (compresi l’onda d’urto ed il frastuono). Era il 1915. Questa diagnosi, fu poi abolita nel 1939, probabilmente anche per il fatto che quegli stessi sintomi si osservavano anche in soldati che non si trovavano in prossimità dei bombardamenti. Verso la metà degli anni ’40, fu poi dimostrata la correlazione, in campo militare, tra numero di ferite e numero di ricoveri psichiatrici.
Come riportato in un articolo di Sayer del 2008, in passato sono state infatti sollevate numerose riflessioni sul fatto che il meccanismo più comune di trauma cranico durante i combattimenti, come la lesione concussiva da esplosione, provocasse delle sequele neuropsichiatriche diverse rispetto a quelle associate ad altre tipologie di trauma cranico.
Ovvero si osservavano sintomi più specifici e caratteristici. Ci si cominciava quindi a chiedere se ci fosse una concomitanza di ruoli tra trauma “biomeccanico” (la lesione cerebrale) e trauma psicologico. Inizialmente c’era riluttanza ad abbracciare l’ipotesi che entrambe le forme di trauma potessero operare attraverso meccanismi sovrapporti e/o complementari, e veniva quindi posta più enfasi sull’aspetto neurologico ed organico. Ma ci si è accorti, poi, che non può essere solo questo. Ad esempio, Cramer nel 1949, nel descrivere il quadro clinico di quella che definì commozione cerebrale da esplosione, scrisse: <<…omissis… una o più esplosioni vicine, che non causano danni evidenti o esterni al cranio, rendono comunque il soggetto privo di sensi. Dopo questo, ha un’amnesia retrograda per tutto tranne il lampo dell’esplosione, e successivamente un’amnesia anterograda per un periodo variabile. Durante questo periodo può avere grande agitazione motoria e risposte normali o esagerate agli stimoli. Riprendendo conoscenza, ha un’emicrania intensa e intrattabile, che in seguito lascia il posto a una cefalea più lieve, ma costante; tinnito; intolleranza ai rumori; tremori, e “nervosismo”. …omissis… L’esame neurologico è, per la maggior parte, “negativo”. …omissis… i sintomi più frequenti sono l’incapacità di tollerare rumori forti o movimenti bruschi; questi stimoli a volte provocavano forti risposte di sussulto… spontanee o in risposta a stimoli, come l’esplosione di un proiettile o il passaggio di un aereo>> (in Cramer F., 1949).
L’autore aggiungeva, poi, nei suoi scritti, anche descrizioni di ansia, depressione e “regressione” per descrivere lo sconforto ed il mutismo che spesso si manifestavano e caratterizzavano il comportamento del paziente (McAllister et al., 2010).
Si è dovuti arrivare agli anni ’80 perchè si considerasse ufficialmente il concetto di disturbo mentale traumatico come legato a lesioni cerebrali traumatiche da armi esplosive e a carattere psicologico, parlando appunto di Disturbo Post-Traumatico da Stress (Kong LZ et al., 2022). In altre parole, la versione moderna del Shell Shock può essere oggi descritta come Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), associato talvolta a lesioni cerebrali.
Il PTSD è uno dei disturbi mentali più comuni tra i veterani ed i soldati di guerra ed è probabile che si manifesti insieme a sintomi depressivi e sintomi ansiosi (Milliken et al., 2007; Smith et al., 2016). Quando parliamo di veterani o soldati di guerra non dobbiamo solo pensare ai soldati che hanno combattuto nelle guerre mondiali o nella guerra del Vietnam.
No, parliamo della popolazione militare, cioè di soldati (congedati o ancora in servizio) in generale. Soldati del passato, ma anche del presente.
Alcune ricerche condotte sui militari statunitensi schierati in Iraq ed Afghanistan hanno dimostrato che circa il 14-16% di questa popolazione, mostrano i seguenti sintomi (Kapur et al., 2009; Selby et al., 2010; Gates et al., 2012; Shen et al., 2016; Liu et al., 2019; Sullivan et al., 2019):
– Disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Tale disturbo ha un’entità biologia, psicologica e sociale complessa e in evoluzione. Il PTSD può colpire chiunque abbia vissuto un evento traumatico, direttamente o indirettamente, che ha comportato una minaccia per la vita o l’integrità fisica. In genere gli eventi traumatici sono imprevedibili e la persona li valuta come assurdi, cioè non è in grado di dargli un senso “cognitivo”.
– Depressione. Molti studi svolti sui militari americani, hanno dimostrato che fino al 9% degli accessi alla rete sanitaria militare sono legati alla depressione. La depressione si manifesta attraverso molti sintomi, tra cui umore depresso quasi ogni giorno per la maggior parte dei giorni, perdita di interesse per le attività che prima si ritenevano piacevoli, insonnia o ipersonnia, perdita o aumento di peso, rallentamento o agitazione psicomotoria, affaticamento, ridotta capacità di concentrazione, pensieri di inutilità e pensieri suicidi. Questi sintomi hanno un impatto significativo sulla qualità di vita dei pazienti, interferendo sul normale funzionamento nella attività sociali e professionali. Ciò che è interessante notare in questi studi è che lo sviluppo della depressione non sembra essere legata solo alla partecipazione a combattimenti o guerre. Sembrerebbe infatti che l’ambiente e la vita militare possono divenire, essi stessi, dei catalizzatori per lo sviluppo e la progressione della depressione. Sembrano essere fattori di rischio:
- Separazione dai propri cari
- Vivere spesso o simulare spesso situazioni di alto pericolo
- Preoccupazioni legali legate ad codice dell’ordinamento militare
- Preoccupazioni legate all’idoneità fisica
- Traslochi frequenti (trasferimento in diverse sedi)
- Possibili discordie di comando/leadership
- Complicazioni legate al rango e agli avanzamenti di carriera.
– Suicidio. I tassi di suicidio maggiori si registrano prevalentemente tra i veterani di guerra. Essi, infatti, sembrerebbero correre un rischio significativamente maggiore di suicidio (rispetto ai colleghi ancora in servizio), in particolare durante il loro primo anno da congedati. In uno studio di Nichter e coll. del 2020 è emerso che, negli USA, i veterani morti per suicidio si aggirano attorno ai 6.000, registrando un aumento del 30% tra il 1999 ed il 2016.
Tra i militari ancora in servizio, invece, sembrerebbero entrare in gioco dei fattori protettivi all’ideazione suicidaria: senso di appartenenza e di identità, forti legami interpersonali, senso del dovere verso gli altri, maggiore facilità di accesso all’assistenza sanitaria militare, maggior senso di scopo e di controllo nella e sulla propria vita, minore difficoltà ad “aprirsi” con i propri familiari.
– Uso di sostanze. L’abuso di sostanze si contraddistingue per una serie di comportamenti che circondano la ricerca compulsiva di una sostanza quale droga o alcol (nonostante il desiderio di smettere), spesso utilizzata per alleviare lo stress e per facilitare la socializzazione. La perdita di controllo di questi comportamenti può portare ad una grave alterazione del normale funzionamento di vita della persona sul piano sociale/familiare, professionale e cognitivo.
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