Quando il suicidio è contagioso: l’effetto Werther

Quando il suicidio è contagioso: l’effetto Werther

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ogni anno muoiono quasi 800.000 persone per suicidio.

E per ogni suicidio ci sono più di 20 tentativi di suicidio (World Health Organization, 2019).
Vien da sé quindi che il suicidio è diventato un problema urgente di salute pubblica e che riguarda tutto il mondo. Esistono numerosi studi che indicano molteplici fattori che influenzano i suicidi:

  • salute mentale, in particolare presenza di patologie psichiatriche quali Depressione Maggiore e Disturbo Bipolare
  • determinanti sociali, quali disoccupazione, povertà o grave perdita economica, isolamento sociale, condizione di homeless, esperienze traumatiche dei migranti, vergogna sociale, umiliazione e bullismo, conflitti armati (Quin P et al., 2003).

Mentre la correlazione suicidio/disturbi mentali è ampliamente studiata da numerosi anni, sembra essere più recente l’interesse relativo alla correlazione suicidio/fattori sociali.
Un’interessante area di ricerca relativo a quest’ultimo tipo di correlazione riguarda, in particolare, il ruolo e l’influenza dei media sul comportamento suicidario (Domaradzki, 2021). E’ nel 1974 che si comincia a sviluppare, in modo sempre più crescente, l’idea di un’associazione tra la diffusione mediatica dei comportamenti suicidari e l’effettiva tendenza al suicidio, come se al sol parlarne si potessero mettere in moto “contagi suicidari”.

In altre parole si insinua l’idea che divulgando notizie riguardanti suicidi, in qualche modo si diffondano/spandano/contagino comportamenti suicidari imitativi.
Ma andiamo con ordine.

Quest’idea di “contagio suicidario” iniziò a diffondersi nell’ambito della ricerca scientifica nel 1974 a seguito della pubblicazione di un lavoro del sociologo David Phillips, nel quale descrisse un significativo aumento del tasso di suicidi dopo che diverse storie di condotte suicidarie furono pubblicate sul New York Times (Phillips DP, 1974). Egli coniò il termine “Effetto Werther” proprio per identificare un effetto imitativo di comportamenti suicidari. Il nome deriva infatti dal romanzo di fine ‘700 “I dolori del giovane Werther” di Goethe, nel quale il protagonista, per amore, arriva a suicidarsi. Dopo la pubblicazione di questo libro, furono registrati circa 40 casi di suicidio in cui venne utilizzata una modalità molto simile a quella descritta nel libro.

Studi più recenti, allacciandosi ad osservazioni di fenomeni simili a quello descritto di Phillips, hanno provato a spiegare l’influenza dei media sui suicidi attraverso la teoria dell’apprendimento sociale e la teoria dell’identificazione.

In base alla prima teoria, secondo la quale la maggior parte dei comportamenti umani viene appresa attraverso l’osservazione di comportamenti altrui e la modellazione, alcuni individui più vulnerabili (per esempio coloro che soffrono di un disturbo depressivo o attraversano un momento di crisi psicosociale) possono adottare comportamenti suicidari poiché acquisiscono dai media l’idea che i problemi personali possono essere risolti con il suicidio (Blood RW et al., 2001; Niederkrotenthaler T et al., 2017).
Secondo la teoria dell’identificazione, invece, le persone tendono ad identificarsi con individui simili a loro.

Seguendo questo principio, le persone che affrontano stati emotivi, situazioni e problemi simili a quelli di coloro che si sono tolti la vita e che sono stati descritti dai media, possono sviluppare una sorta di attaccamento che li incoraggia ad imitare il comportamento suicida (Blood RW et al., 2001; Niederkrotenthaler T et al., 2017).

In merito all’identificazione, alcuni autori parlano di “identificazione orizzontale”, ovvero la tendenza delle persone ad identificarsi ed ad imitare i comportamenti di persone considerate di “pari livello”. Altri autori, invece, fanno riferimento alla “identificazione verticale” e sostengono che gli individui imitano i comportamenti di persone famose, popolari e ammirate perché ritenute socialmente superiori (Wasserman IM, 2984; Schmidtke A et al., 1988; Stack S et al., 2005; Niederkrotenthaler T et al., 2009).
In definitiva, nel complesso di entrambe le teorie, sembra emergere l’idea che mentre alcune persone apprendono attraverso i media che il suicidio è una soluzione appropriata ai problemi della vita personale, l’imitazione gioca un ruolo importante nella modellazione ai comportamenti suicidari.
Come sottolineato da Domaradzki nella sua revisione della letteratura del 2021, c’è una quantità crescente di prove che dimostrano la relazione di causalità tra i reportage diffusi dai media e gli effettivi aumenti dei tassi di suicidio. Di conseguenza l’influenza che i media esercitano sulle persone è un fattore importante che va tenuto in considerazione, soprattutto quando esso diventa fattore di rischio di comportamenti suicidari nella popolazione generale.

Certo è da considerare che giocano un ruolo importante sia la quantità che la qualità dei reportage che vengono diffusi: è infatti più probabile che il “contagio” di suicidio si verifichi dopo un’ampia copertura mediatica e con un contenuto ricco di definizioni, più o meno esplicite, di definizioni positive di suicidio (ad esempio il messaggio che una persona si è tolta la vita per risolvere i propri problemi economici).
Va però riconosciuto un aspetto importante legato ai media: poiché lo stile di cronaca può essere modificato e migliorato, non dobbiamo vedere i media solo come dei “veicoli di diffusione” di suicidi. Essi infatti possono avere un effetto “protettivo”, ovvero educativo e preventivo, soprattutto quando, affrontando i temi legati alle “problematiche di vita”, presentano soluzioni alternative al suicidio e strategie di coping efficaci agendo così sulla riduzione del “contagio”. Niederkrotenthaler e colleghi, in uno studio del 2010, hanno introdotto l’espressione “Effetto Papageno” (dal personaggio Papageno dell’opera di Mozart Il flauto magico), proprio per indicare l’effetto preventivo positivo che i media possono avere sui comportamenti delle persone, in particolare di quelle più vulnerabili (Niederkrotenthaler T. et al., 2010; Sisask M et al., 2012).

Foto di Mike Cha pexels.com

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