Covid: quanto pesa la solitudine?

 

Nel mio lavoro, in questi anni, ho avuto modo di parlare di solitudine. Ho parlato di solitudine da smart-working, ho parlato della solitudine da lockdown, persino della solitudine legata alle feste natalizie. Oggi però voglio parlare di un’altra solitudine. Oggi voglio parlare della mia solitudine, che è anche quella che ha accompagnato milioni di persone in tutto il mondo in questi due lunghi anni. Non parlo di poter andare a ballare o il non poter frequentare le palestre o di altre situazioni simili. Certo, tutto questo è indispensabile per il benessere psicofisico e non nego il fatto che siano fondamentali nella vita delle persone. Ma, ribadisco, oggi voglio parlare della mia solitudine, quella provata durante l’isolamento, o quarantena che dir si voglia (quanto mi suona brutta ora questa parola!).

Quando all’improvviso non puoi più uscire dalla tua stanza, quando all’improvviso la tua casa diventa ancora più piccola, quando all’improvviso la tua famiglia al di là della porta, sembra distante duecento chilometri.

Voglio raccontarvi proprio di questo. Voglio raccontarvi di quello che ho provato: mettendomi in gioco, mettendo davanti le mie emozioni. Ora ho forse finalmente capito le emozioni che in questi due anni, tanti, troppi pazienti mi hanno raccontato e descritto accompagnando ogni singola parola con le lacrime, come se queste potessero in qualche modo sciacquare via il nero di questo dolore.

Scrivo di getto, lasciando che i pensieri fluiscano, esattamente come suggerisco ai miei pazienti, lasciando scivolare i pensieri dalla mente al foglio.

Oggi lo faccio io, con voracità e desiderio di essere seduta dall’altra parte del divano. Amo il mio lavoro, amo ascoltare e amo entrare il più empaticamente possibile nelle emozioni altrui. A volte mi sento uno speleologo che con un elmetto giallo, di quelli con la torcia, accompagna il paziente nei meandri cavernosi dell’Essere.

E camminiamo, a volte in fila indiana, altre tenendoci per mano, poi inciampando, ancora a passo più spedito. Ci addentriamo in profondità, per scoprire che a volte c’è buio, a volte ci sono tratti scivolosi, altre ci sono spazi che profumano di muschio fresco, o che sanno di stantio e altre volte ci imbattiamo in inaspettate pareti fatte di cristalli che prendono sfumature meravigliose a seconda di come riflettono la luce.

Oggi, voglio fare la speleologa di me stessa.

Perché credo che la mia solitudine, a ben vedere, possa essere la solitudine anche di qualcun altro e magari la condivisione di un “sentire” può alleviare, almeno un po’, quel senso di pesantezza. In questo momento sono esattamente quello speleologo. Ho la fortuna di avere uno zaino con tanti strumenti. Ma, si sa, i pericoli, laggiù, sono sempre in agguato ed è meglio non dare mai nulla per scontato e muoversi passo dopo passo, con calma e guardandosi bene attorno.

Ho iniziato scoprendo l’incredulità. Quell’incredulità che ti fa spalancare la bocca in una sorta di espressione vocale muta metà sgomento e metà “rido perché non ci credo”. Sono entrata in quella caverna e ho toccato le pareti dell’incredulità. Un essere che immagino colorata di grigio. Il grigio della nebbia che copre tutta la realtà, che disorienta, che ti fa credere di essere in un punto e invece non lo sei.

Sapevo perfettamente quanto infimo potesse essere questo virus del COVID-19, perché alla fine è di questo che parliamo. Sapevo dell’infettività e di tutto il bla-bla-bla che ci accompagna da troppi mesi; non per sminuire l’argomento, ma per stanchezza di sentire-parlare-sempre-di-questo-argomento.

Ma forte del mio essere sempre stata attenta ad ogni procedura, quando è arrivato a me, l’incredulità ha preso il sopravvento, avvolgendo tutto nel grigio nebbia. É arrivata con una telefonata. Già, la telefonata del “Scusami Giulia, non so come dirtelo, però sono positiva. Non lo sapevo. Mi sento così in colpa, scusami”.

Questa frase ha suscitato in me due sensazioni: grande dispiacere nei confronti di chi si stava sentendo in colpa e rabbia verso questo virus che avrebbe creato una sorta di frattura nella mia normalità, nella mia quotidianità. Il dispiacere nel sentire le scuse: perché ti devi scusare? Per cosa ti devi scusare? Non dipende certo da te o da noi, non c’è dolo, abbiamo fatto le cose come si deve, seguendo le linee guida, sempre. Sempre distanti, sempre mascherate, sempre con finestre aperte… Sì, sempre, tranne nel mangiare quel pasticcino.

Perché ciò che ci ha “fregato” è stato condividere un momento di felicità e di leggerezza, mangiando un pasticcino. E ci si deve sentire in colpa per questo? É giusto sentirsi colpevole per essersi regalati cinque minuti di leggerezza? Sentire questa giovane donna con il cuore dispiaciuto, mi ha creato disagio e dispiacere.

Continuando la mia discesa a poco a poco la nebbia si è diradata e mi sono ritrovata circondata da pareti spesse di roccia umida e scura. Mi sono ritrovata in un blu così profondo che i miei occhi ci hanno impiegato un po’ per riuscire ad adattarsi e a capire dove sono finita. Ho sentito lo sgocciolare, ho sentito quell’umidità che si insinua nelle pieghe più profonde dell’animo e ho sentito il cuore stringersi.

Mi sono ritrovata nella tristezza. Eccola, è arrivata. Lungo il tragitto ho sentito le rocce pungenti della presa di consapevolezza che sarebbe arrivato l’isolamento che per un numero indefinito di giorni sarei dovuta stare in quarantena.

Non voglio parlare della malattia in sé, ma voglio concentrarmi su ciò che è l’Essere. Su quello che succede dentro, quando all’improvviso sei solo.

Ed è nell’essermi punta con la consapevolezza della solitudine, che si è aperta di fronte a me la caverna della tristezza. Era blu, un blu profondo come il cielo di notte. Un cielo privo di stelle ad orientarti. Un cielo senza luna ad illuminare. Era una tristezza fatta di un niente così palpabile. Era una tristezza fatta solo della solitudine dei tuoi pensieri. Ecco, quelli arrivano, quelli cominciano a turbinare, a vorticare veloci, a rincorrersi come in un gioco “a chi riesce a fare più male”. Era la tristezza nell’essere io, questa volta, a fare quella telefonata a mio marito per dirgli “Amore, non torno a casa perché sono stata a contatto con un positivo”. Ed eccola la Ragione che è arrivata a farsi largo tra i pensieri. Eccola, in tutta la sua corticalità che ha cercato di calmare il groviglio di pensieri blu. La Ragione. Lei, bella, chiara. Come un fascio di luce gialla ad orientarmi e che mi ha sussurrato: “Cosa dice la legge? Cos’hanno detto che devi fare?” “Agli ordini signora Ragione!”

Ho cercato, cercato, cercato su Internet, letto, mi sono informa e aggiornata. Sì, eccolo lì il sito del Ministero. Eccola, la notizia che cercavamo, mia gialla Ragione: la legge dice che mi posso mettere in autosorveglianza per 5 giorni e vedere se compaiono sintomi. <<Ottimo, fallo allora!>> mi ha sussurrato in un orecchio la Ragione. Mia cara gialla e luminosa Ragione, mi dispiace, ma il blu è più forte. Ed è così che la Ragione è stata intrappolata nella ragnatela dei pensieri blu. Ho fatto il test ed il responso era perfino scontato. Ed è iniziato l’isolamento.

Ed è iniziata la quarantena. Sono rimasta chiusa nel mio studio. Non sono nemmeno tornata a casa. Sono rimasta qui, ferma, immobilizzata con delle corde dalla realtà dei fatti. Immobilizzata e con la mia quotidianità fratturata. E mio marito mi ha allungato un borsone preparato da lui e mia figlia di nove anni. Un borsone preparato come solo un marito e una bambina di 9 anni possono fare: un pigiama preso e arrotolato, medicine (giuste, lo devo ammettere), 3 bottigliette di birra, 1 bottiglia di vino (con annesso cavatappi…l’attenzione per il dettaglio!), una barretta di cioccolato fondente e un perizoma (perché? Me lo sto ancora chiedendo). Ho trovato sopra a tutto un biglietto, un cuore scritto dalla mia bambina, che nel ricevere la notizia che sua mamma non sarebbe tornata a casa si è presa il tempo per prepararmi un lavoretto “al volo”.

E tutto questo è ciò che mi ha fatto malinconicamente sorridere e deliziosamente commuovere. Aperto il borsone e preparato il divano-letto è però iniziata la discesa scivolosa verso l’amara solitudine. E le lacrime sono diventate qualcosa di più di un semplice commuoversi. Le lacrime sono diventate torrenti salini. Come una piena improvvisa che si va ad incanalare nelle rughe del viso contratto dalla blu tristezza. Quelle rughe che si formano intorno agli angoli contratti della bocca, alla mascella serrata e a tutte quelle rughette che guardano verso il basso, proprio come gli occhi. Come se improvvisamente la vita non fosse più davanti a me, verso l’orizzonte, ma giù, verso i piedi. Stavo provando qualcosa di nuovo mai esplorato nella mia vita: una tristezza e una solitudine, così profonde ed intense da sentirsi quasi inghiottiti. Ma ho cercato di non scappare; come un bravo speleologo, le ho guardate e le ho osservate e cercate di capirle. Non di sconfiggerle, ma di accoglierle.

E ho scoperto che la tristezza è come una pietra magica che si illumina quando nel mio cuore prende il sopravvento la solitudine. La solitudine è una roccia pesante, ruvida, dai contorni frastagliati, tagliente e pungente. La solitudine è davvero pesante da tenere in mano. Ma nell’osservare tutto questo, ho scoperto anche un’altra cosa: questa grotta e questa roccia variano a seconda dei momenti. Non sono costanti. Il peso maggiore, un peso quasi insopportabile arrivava quando terminavo la videochiamata con mio marito e mia figlia. Sono a pochi passi da me eppure era come se fossero dall’altra parte del pianeta. Non li potevo toccare, accarezzare o abbracciare. E quegli occhioni di mia figlia, così lucidi da renderli ancora più azzurri, quegli occhioni che amo con tutta me stessa che velavano il suo bel viso di un’amara tristezza mentre mi chiedeva quando tornavo a casa o quando mi diceva che le mancavo. Quello, sì, quello è il peso più grande della solitudine. Perché lei mi vedeva, stavo bene, parlavo, respiravo, non tossivo, eppure dovevamo stare lontane, eppure non potevamo abbracciarci. La cosa più naturale di questo mondo, la cosa che più ci lega nel nostro rapporto, sembrava all’improvviso diventata una bomba da disinnescare.

E lo so, mia cara Ragione gialla e luminosa che era per il bene di tutti, ma, scusami tanto “Chissenefrega del bene di tutti quando non puoi abbracciare tua figlia!”. O quando mi guardava con i suoi occhioni azzurri spalancati cercando conforto da me. Un conforto che non riuscivo a dare come avrei voluto. E questa è un’emozione che non ho saputo etichettare. Non sono riuscita a darle un nome perché mi veniva da piangere e la voce diventava singhiozzante e, paradossalmente, avevo solo voglia di rintanarmi in quella grotta e lasciarmi avvolgere dal blu senza dover fingere che andasse tutto bene, lasciandomi cullare dalla tristezza e da ogni altra emozione che arriva dando spennellate di colori diversi a questa grotta.

E così ho scoperto che era una grotta a tratti opprimente e a tratti confortante.

A volte mi faceva sentire in trappola, a volte mi faceva sentire protetta. Era una grotta davvero strana. Ma non potevo rimanere bloccata lì. I giorni passavano e dovevo proseguire. Ed è vero, i giorni passavano e io proseguivo nel mio percorso passo dopo passo e mi sono accorta che c’era un’ombra nuova che mi accompagnava. La osservavo. Era un’ombra verde. Ero seguita dalla speranza.

La speranza, bella, luminosa, profumava di gelsomino. Era la speranza arrivata quando ogni sintomo di malessere è scomparso . Bene, mia bella speranza verde, mi stavo avvicinando al quinto giorno, quando molti si negativizzano. Mi sentivo meglio, sentivo maggiori forze ed eccola, quella speranza che, presto, andrà tutto bene. Ma la speranza, ho scoperto, è un’ombra che va e viene.

Era incostante. Era un verde che spesso si mescolava al blu. Ma in mezzo al blu che ha accompagnato un po’ tutte le caverne e grotte scivolose che ho incontrato, in mezzo a qualche pennellata verde e gialla di speranza e ragione, ho incontrato altre cose. Piano piano, nella risalita verso l’esterno (o libertà) ho incontrato un’amica.

Era l’allegria. Sì, lo so ho scritto fino adesso di solitudine, di tristezza e di cose strappalacrime, ma credetemi, ho incontrato allegria. Un po’ come dopo un brutto temporale, nero con tuoni e lampi e che poi sbuca l’arcobaleno, magari doppio. Ed è vero, la sua visibilità dura poco, ma vederlo è comunque meraviglioso e crea una sorta di pace interiore. Ecco, ci sono state tante persone che sono state il mio arcobaleno in videochiamata. Ed è arrivato il settimo fatidico giorno. Il giorno, però, peggiore di tutto il mio isolamento.

Mi sono svegliata e tutto era colorato di verde speranza. Ero al settimo giorno. Ho fatto il tampone. Positivo. Ancora positivo.

Ho scoperto una nuova grotta, l’antro peggiore di tutto questo viaggio. L’antro della rabbia e della delusione. É esplosa alla comparsa della seconda linea rossa, quella della positività. E la giornata è andata disastrosamente. Lì non c’è stato un rigagnolo di lacrime, lì c’è stata una inondazione. Lì c’è stato il nero. Buio. Amarezza. Rabbia. E le persone della mia vita che semplicemente assistevano silenziosamente alle mie imprecazioni, alla mia delusione, alla rabbia, alla tristezza e al senso di solitudine che, improvvisamente, schiacciava ancora di più. E la cosa strana era che avrei voluto stare in compagnia e contemporaneamente volevo stare da sola. In qualche modo quel nero non mi faceva paura. In qualche modo il nero copriva ogni cosa ed era l’unica cosa che desideravo. Lunghe videochiamate dove stavo per lo più in silenzio e guardavo il mondo e la vita con rabbia e il groviglio di pensieri che mi ripeteva continuamente “Non è giusto, non è giusto, non è giusto”. Rabbia anche verso me stessa, colpevolizzandomi di essermela andata a cercare o non sto facendo abbastanza bene.

Credo che sia stato in quei momenti che ho deciso di scrivere, ho deciso di incanalare tutto quel nero e come sempre, accettarlo per quello che è. Perché e nel momento che accetto la cosa per quello che è, così com’è, che sono in grado di lasciarla andare. Ed è così che è arrivato venerdì.

Ottavo giorno. Mi sono svegliata con la paura di fare il tampone. Con la paura che arrivasse di nuovo quella delusione. Ma lo dovevo fare, lo volevo fare. Non potevo fare come gli struzzi che nascondono la testa sotto la sabbia. Due bei respironi profondi… Negativo. Il mio primo tampone negativo dopo 8 giorni. Via il nero, via il blu, improvvisamente ho trovato la cavità verso l’uscita. E ho cominciato a salire e risalire. Improvvisamente la tristezza è sparita. Dopo essermi confrontata con il mio medico sul da farsi ecco che ho avuto una data per il rientro a casa.

Oggi è sabato e domani, incrociando le dita, torno a casa. La frattura si è quasi ricomposta. E dentro di me c’è gioia, desiderio di abbracciare e di essere abbracciata. E questa è la gioia che colora tutto di viola, il mio colore preferito. Oggi mi sento pervasa dal viola, dalla voglia di fare, il sole è tornato, non è più eclissato. Oggi sento quell’energia vitale che mi permette di affrontare tutto. E mentre risalgo da quelle grotte, sempre stando attenta a non scivolare, vedo la scia di colori che ho lasciato dietro di me.

Riguardo tutto con profondo rispetto. Mi prendo anche qualche momento per sentire quei colori e per lasciare che ognuno lasci una traccia dentro di me. La traccia necessaria per poter dire di avere imparato qualcosa. La traccia che solo scendendo così in profondità può essere trovata, toccata con riverenza e portata in superficie. Così da metterla dentro il mio zaino da esploratrice e poterla utilizzare quando serve, come nuovo strumento in più. Non solo per me.

E forse queste lunghe pagine, agli occhi di qualcuno, possono sembrare lunghe, noiose e piene di niente o esagerate. Non importa. Magari qualcun altro finirà in queste grotte (forse per COVID o forse per qualcos’altro) e potrebbe ritrovare i segni lasciati dai miei colori e forse così sentirsi meno solo. E magari questo ci fa sentire meno soli o, se anche ci sentiamo così, magari la solitudine può trasformarsi in un qualcosa di meno pesante.